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antonio montanari

Stanislaw Wielgus

 
Da Varsavia, una lezione per noi
Clamoroso dietrofront del Vaticano. Il papa ha imposto le dimissioni a monsignor Stanislaw Wielgus, dopo che per ben due volte (il 21 dicembre 2006 ed il 5 gennaio scorso), gli aveva confermato la sua fiducia incondizionata.
Il montare della polemica sul passato da spia comunista del neo arcivescovo di Varsavia, ha travolto le ultime resistenza dei Palazzi apostolici.
La Curia romana risulta la vera sconfitta dell'intera vicenda, dopo aver istruito la pratica di Wielgus, il quale ne esce tutto sommato a testa alta. Ha ammesso il suo "errore" dopo averlo inizialmente negato. Roma però lo ha sempre coperto, accettando sino all'ultimo momento una situazione assurda. In tal modo l'indietro tutta del papa è ancora più eclatante, ed è la sconfessione della procedura seguìta dalla Curia romana, consapevole della realtà drammatica e dolorosa delle cose, ma con testardo orgoglio noncurante dei gravi riflessi negativi che una tale nomina avrebbe potuto avere (come in effetti ha avuto) nell'opinione pubblica non soltanto polacca.
La Curia forse ha ritenuto che Varsavia fosse facilmente controllabile ed addomesticabile come accade con i vicini politici italiani. Da ciò deriva una severa lezione per il nostro Paese circa la linea laica da seguire nel rispetto della Costituzione del 1948.
La lettera di Wielgus ai fedeli scaricava formalmente, venerdì scorso, ogni responsabilità su Roma. Wielgus ammetteva infatti d'aver detto al papa che era stato coinvolto «con i servizi di sicurezza dell'epoca che operavano in uno stato totalitario e ostile nei confronti della Chiesa».
Ma il papa ed i «dicasteri competenti della Capitale Apostolica», aveva aggiunto Wielgus, non avevano manifestato rilievi. Per scaricare la sua coscienza, Wielgus si confessava davanti a tutti e fuori dai vincoli burocratici.
A quel punto la situazione era insostenibile per Roma. Oggi, mentre ci aspettavamo di vedere le telecronache del discusso insediamento del nuovo arcivescovo di Varsavia, è avvenuto all'ultimo momento il colpo di teatro. Il papa accettava quelle che sono state chiamate dimissioni soltanto per rispetto formale dei codici di Diritto canonico. In realtà si è trattato di un licenziamento in tronco del personaggio divenuto scomodo e non più difendibile davanti all'opinione pubblica mondiale, al punto di far ipotizzare che abbia spiato dal 1967 e per vent'anni anche Karol Woityla sia da cardinale sia da papa, il papa della caduta del muro di Berlino.
Come scriveva stamani sulla Stampa, con una domanda retorica, Franco Garelli, ammesso che Wielgus abbia realmente informato il Vaticano sul suo passato di spia, la sua nomina poteva apparire come «la sconfessione» della lotta condotta in patria e nel mondo dallo stesso Karol Woityla «contro il comunismo e per i diritti religiosi e civili».
L'episodio di Varsavia è accaduto all'interno del mondo cattolico e dell'Europa, questa volta non ci sono musulmani da incolpare, al contrario di quanto accaduto dopo il discorso papale di Ratisbona, dove Benedetto XVI aveva offerto improvvidamente una citazione da Manuele II Paleologo, per il quale Maometto aveva portato soltanto «cose cattive e disumane».
Questa volta sono gli stessi ambienti cattolici (non tutti, s'intende) a giudicare inadeguata l'azione della «Capitale Apostolica».
Resta soltanto da chiedersi: è colpa di Benedetto XVI oppure si tratta di un tiro mancino della Curia ai suoi danni?
La vicenda polacca avviene all'indomani del discorso papale sulla «immensa espansione dei mass-media», i quali se da una parte moltiplicano le informazioni dall'altra «sembrano indebolire la nostra capacità di sintesi critica».
Quanto accaduto a Varsavia per il caso Wielgus fornisce un'indicazione opposta: il moltiplicarsi delle notizie ha favorito la «sintesi critica», sino al punto di spingere il Vaticano a far marcia indietro sulla sua decisione per quella sede arcivescovile. A Varsavia nessuno immaginava una soluzione così rapida ed inattesa, data la tradizione ecclesiastica dei «tempi biblici».
A Roma dovrebbero mandare a memoria la frase dello storico Bronislaw Geremek, già vicino a Solidarnosc: i polacchi di oggi pensano che Karol Woityla non avrebbe mai scelto un personaggio come Wielgus per la carica da arcivescovo della capitale.

 

Giuliano Ferrara, papa 'azzurro'

Giuliano Ferrara
Giuliano Ferrara 
Una volta, nel repertorio giornalistico, c’erano il papa bianco che celebra in San Pietro e quello nero (dal colore della veste pure lui) che presiede all’Ordine di Gesuiti. Adesso c’è anche un papa «azzurro», Giuliano Ferrara, giornalista e consigliere privilegiato del movimento berlusconiano. Proprio dal partito del signore di Arcore a cui egli aderisce con un entusiasmo sovrannaturale, ricaviamo la tinta con cui il buon Ferrara cerca di accreditarsi quale inedita e somma autorità spirituale nel panorama religioso italiano.
L’editoriale che Ferrara ha composto per «Il Foglio» di sabato 30 dicembre 2006, non è uno scritto normale, ma una predica, un’omelia, l’intervento di chi si ritiene un teologo più a tempo pieno che a tempo perso e che, quindi, si sente autorizzato a (come si suol dire) pontificare sopra un tema che non gli dovrebbe appartenere, ma del quale si è appropriato non per faccia tosta (che non gli manca), ma perché si considera investito d’una funzione salvifica nei confronti dell’intera umanità, od almeno di quello spicchio d’umanità che coincide con gli abitanti dell’Italia.
La sua «Sfida ai cattolici senza dottrina» (questo il titolo dell’editoriale) è una solenne tirata d’orecchie degna d’un teologo del Sant’Uffizio a quanti, tra i fedeli di Santa Romana Chiesa, hanno sostenuto che nel caso di Piergiorgio Welby si trattava di por fine all’accanimento terapeutico e non di eutanasia, e che era stato un errore del Vicariato negargli la cerimonia religiosa.
Ferrara, indossate le sacre vesti dell’Inquisitore, chiede (od ordina?) di portare le pezze d’appoggio dottrinali di questo modo di pensare, i cui seguaci sono accusati di aver ridotto il cristianesimo ad una «filastrocca umanitaria», senza alcuna giustificazione teorica (che in questo caso vuol dire teologica, filosofica e persino politica…).
Ridotto in pillole il profondo argomentare di Ferrara, esso significa che non si può essere buoni cristiani senza essere buoni teologi. Ferrara ovviamente sa ma finge di non sapere che il Vangelo è cosa per tutti, più per gli umili, gli «ultimi» destinati a diventare primi, piuttosto che per un apparato organico specializzato nel distillare norme e discipline che secondo il vento che tira nei sacri palazzi possono anche condurre a bruciare qualche cristiano in odore di eresia.
Proprio per il suo spirito innovatore, Gesù Cristo in quei roghi era vicino non ai carnefici ma agli eretici arsi vivi in nome suo.
Ferrara non agisce da solo, ovviamente, in questa battaglia. A fargli buona compagnia (se non concorrenza) c’è un vero sacerdote, don Gianni Baget Bozzo che in un articolo sulla «Stampa» (28 dicembre 2006) intitolato «Berlusconi l’anima della libertà», ha concluso con un’affermazione alquanto temeraria e bugiarda perché antistorica: «La Repubblica è di sinistra, la democrazia è di destra». Basta ricordare soltanto qualche piccolo particolare delle vicende del secolo passato, per accorgersi che don Gianni ha espresso concetti lontanissimi dalla verità dei fatti. Ma a quale scopo falsifichi la storia non si sa, quando gli basterebbe falsificare la politica (reato condonabile con apposita legge ad personam) sostenendo che Berlusconi in quanto anima della libertà è un politico vero della vera sinistra che ormai in Italia non esiste più.
Miriam Mafai su «Repubblica» (29 dicembre 2006), rifiutando l’etichetta di laicismo applicata al pensiero laico, ha ricordato in conclusione una frase di Enzo Bianchi, il priore di Bose: «Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchia entrare nella tecnica, nella economia e nella politica per trovarvi specifiche soluzioni».
Giuliano Ferrara vuol fare l’opposto: da militante politico berlusconiano vuol imporre lui che cosa debbano pensare i cattolici dissidenti rispetto alla gerarchia. Alla quale la gente rivolge domande semplici come quelle apparse il 27 dicembre 2006 nella rubrica della posta di Corrado Augias su «Repubblica»: perché non fu negato il funerale alla guarda svizzera omicida e suicida, perché uno della banda della Magliana è sepolto in una basilica romana?
Antonio Montanari

 

Welby, il dolore e la politica

L'articolo di fondo del Foglio di oggi, che parte dal caso Welby per discutere del ruolo del partito radicale in Italia, è un esempio illuminante non di quell'antipolitica che Giuliano Ferrara rimprovera ai seguaci di Pannella (definiti «l’altra faccia della medaglia di un sistema politico chiuso»), ma di quell'antipolitica a cui lo stesso Ferrara partecipa discutendo dei sacri princìpi della gestione della cosa pubblica, dimenticando che il dramma di vivere è sempre uno, di chi ne è afflitto, vittima e custode di un segreto che la legge non può descrivere perché la norma è sempre astratta, mentre il dolore è concreto.
Tutti fanno finta di non capire che le leggi ci sono già, tutti invocano nuove disposizioni, tra anatemi, condanne morali, rifiuti di funerali religiosi, eccetera eccetera. Questo si chiama svicolare, cerca tempo, dare un colpo al cerchio ed uno alla botte.
Ridurre il problema del rifiuto dell'accanimento terapeutico (problema già risolto dalla norma positiva dello Stato laico e dalla legge morale della Religione cattolica con la sua applicazione al caso personale proprio da parte di un papa, Giovanni Paolo II), ridurre questo problema a battaglia radicale significa soltanto deviare dalla discussione, credere che la Politica sia l'Onnipotenza di quello che non c'é: «una legge, una legge» si grida e s'invoca, ma le leggi ci sono, c'è la Costituzione, c'è soprattutto quello che si chiama il senso comune della gente e della sua coscienza, c'è il rifiuto dell'accanimento terapeutico che non è, onorevole Bindi, eutanasia.
Dividere un corpo senza vita con una spartizione politica come oggi sta succedendo in Italia, con una spartizione che distingue il bonum dell'iniziativa radicale dal malum del suo approdo ad un gesto concreto, dovuto quest'ultimo (secondo Giuliano Ferrara) al fatto che noi abbiamo un sistema politico chiuso, ebbene tutto ciò mi sembra una grande discussione amorale: è come se ad un affamato fosse imposto prima di sedersi a tavola un corso di galateo su come s'impugnano forchette e coltelli, e su come si versa il vino nel bicchiere dopo avere assaggiato il profumo con le delicate narici dannunziane di questi teocon che con il loro atheismus triumphans fanno impazzire di gioia monsignori vaticani ed esponenti della nobiltà nera romana.

Vedi anche qui:
blog.lastampa.it/antoniomontanari
antoniomontanari.blog.kataweb.it
ilrimino.blogs.it
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Casini saluta e se ne va

 
Va in onda la scena degli addii.
Questa sera Pier Ferdinando Casini dirà nella trasmissione di Giuliano Ferrara che «ormai la Cdl non ha più senso per cui i vertici li facciano loro, li facciano Berlusconi, Fini e Bossi».
Niente di più di una presa d'atto, nulla di diverso da uno scritto notarile in cui si constata quanto è già accaduto.
Ieri ho osservato che il «trionfo» romano di Berlusconi nascondeva la sostanziale debolezza dell'opposizione. E che l'attacco del cavaliere a Casini era soltanto l'ultima spiaggia di Berlusconi per dire: il padrone sono me.
Ovviamente Casini non accetta di farsi mettere i piedi sulla testa, lui ha dietro le spalle cento tirocini ed una sola scuola, quella della politica democristiana che non è da prendere alla leggera e che è sempre stata un osso duro per tutti.
Berlusconi ha tentato di presentarsi come l'erede naturale di quella scuola, e pontificava come se si fosse seduto sulla cattedra di Pietro e vestisse contemporaneamente i panni del segretario della vecchia dc e di un pontefice di santa romana Chiesa.
Prima Follini e poi Casini gli hanno detto ciao. Ma non si tratta di Follini e Casini soltanto, cioè di due persone e delle loro correnti politiche o partitiche. In questione è il concetto stesso di forza unitaria che Berlusconi vuole rappresentare mescolando mille anime tenute assieme solo dal collante prima del potere e adesso dell'opposizione. Ma partiti e politica sono tutt'altra cosa. Non sono la proprietà privata data in comodato a qualcuno, sono contrasti e contraddizioni, diverbi ed accoltellamenti, poi non tanto figurati se pensiamo a quel dramma rimosso della nostra storia recente che fu l'uccisione di Aldo Moro.
Merita ampia riflessione quanto scritto ieri da Barbara Spinelli nell'editoriale della domenica sulla Stampa: abbiamo il contesto di una democrazia malata, ma i mali italiani sono ancora da esplorare.
L'uscita di Casini dalla Cdl spacca una coalizione. Sarà una terapia od un aggravamento per la nostra democrazia malata?

 

Da Verona a Vicenza

 
Tra Verona e Vicenza si è consumata una bella sagra politica. In realtà a Verona si doveva parlare soltanto di Religione, ma si sa come vanno certe cose.
Oltre al presidente del Consiglio, è arrivato pure il capo dell'opposizione. Fischi per il primo, investitura popolare per il secondo, con un'aggiunta fuori programma.

Infatti Berlusconi l'altro ieri, invece di andare soltanto ad ascoltare, ha fatto una dichiarazione d'intenti per applaudire al pontefice, e per attirarsene le simpatie, dicendo che fa bene il papa ad opporsi a tutto questo modernismo di gente che ragiona soltanto in termini di scienza e che non s'accorge di come in Occidente stiamo per essere soffocati dai popoli non cristiani.
L'elogio testuale di Berlusconi al papa citava la «difesa della libertà cristiana di Benedetto XVI di fronte al relativismo scientista e al fondamentalismo religioso».

Poi Berlusconi stamani è andato a Vicenza dove ha proclamato il verbo non troppo nuovo: cacciare l'infedele di pazzo Chigi, ovvero Romano Prodi.
A Roma contemporaneamente il papa lanciava un nuovo allarme: l'Occidente sta attraversando «una drammatica crisi di cultura e di identità».
Per i fedeli non di Roma ma di Arcore sarà facile associare l'immagine della crisi occidentale con quella del professore di Bologna, ex ‘allievo’ del cardinal Ruini. Il quale a Verona proprio ieri ha detto che è stato «mancato in larga misura l'obiettivo» dell'unità dei cattolici in politica.

Spaventa l'immagine dolorosamente pessimistica che non i politici ma gli uomini di Chiesa stanno lanciando in questi ultimi tempi, dimenticando la regola prima della Religione: Dio opera nella Storia, e quindi dovremmo stare in silenzio ad ascoltare il Suo modo di parlare.
Invece si fanno le kermesse con le «aggiunte» politiche come a Verona, veramente pericolose perché sono una degenerazione utilitaristica. Da un canto ci sono i politici che chiedono visibilità e ricompense elettorali. Dall'altra i porporati che dicono di non interessarsi alla Politica, eppure parlano ai politici.

Il Vangelo reca parole comprensibili da parte di tutti. I teologi usano definizioni che il senso comune non percepisce. Ma è ancora vera Religione questa?
I primi ad arrivare alla grotta di Betlemme sono stati i poveri, ignoranti, emarginati pastori. Gli ultimi della società sono diventati i primi della Religione.
A Verona non c'erano i pastori della grotta di Betlemme, c'erano quelli (con anelli e croci d’oro) della silenziose stanze curiali e vaticane.

La Chiesa non fa politica, ha detto il papa ed il cardinale Ruini ha aggiunto che è fallita l'unità dei cattolici in politica.
La distinzione tra le due affermazioni è comprensibile soltanto da parte dei teologi, neppure i politici ci arrivano.
In concreto le singole Curie fanno politica e non cercano nessuna unità. Ovvero spacciano per unità gli interventi a gamba tesa che i gruppi di potere all'interno delle Chiese locali attuano per eliminare ogni dissenso, ogni confronto.
La diocesi della mia città, Rimini, ha affidato ad una nota casa editrice locale di destra, la pubblicazione di un testo ‘ufficiale’ sulle «sette» dove si parla anche delle erboristerie che diffondono idee ereticali...

Si legge anche in blog.lastampa.it e in blog.kataweb.it.




 

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